ricordi
La prima visita del Presidente Berlusconi a Tripoli. Il grande impegno diplomatico per “normalizzare” i rapporti della Libia con l’Italia e con l’Occidente
Quando Silvio Berlusconi era diventato Presidente del Consiglio italiano, a me, come Ambasciatore italiano in Libia, era sembrato naturale (anzi mi era sembrato che fosse mio dovere) cercare di promuovere i rapporti del nuovo Governo italiano con il Leader libico. Prima era venuto in Libia il nuovo Ministro degli Esteri, l’Ambasciatore Renato Ruggiero, diplomatico di carriera che, prima di entrare in politica, aveva passato tutti i più importanti traguardi della nostra diplomazia (io lo avevo conosciuto più da presso dai tempi in cui era stato Segretario Generale della Farnesina). E poi eravamo riusciti ad organizzare la visita dello stesso Presidente Berlusconi. All’inizio, la visita appariva non priva di incognite e già la sua preparazione non era stata delle più facili. All’epoca, infatti, vigeva un bizzarro protocollo voluto da Gheddafi nei confronti degli Italiani e, per quei pochi che venivano, degli occidentali. Venivano accolti con tutti gli onori all’aeroporto. Ma poi, trasferiti nelle loro Ambasciate o altre residenze dove alloggiavano a Tripoli, venivano abbandonati lì. Dovevano aspettare che il Colonnello decidesse che poteva riceverli. Dopo tempi che a volte sembravano interminabili, arrivava una telefonata da qualcuno dei suoi collaboratori, generalmente il Capo del Protocollo, Nuri Mismari, e bisognava subito precipitarsi, con sirene e bandierine spiegate, a Bab al-Azizia. L’attesa poteva protrarsi per ore, o persino per qualche giorno e, oltre che spiacevole, risultava anche imbarazzante. Infatti, le personalità politiche che quasi sempre viaggiavano con un ampio seguito di giornalisti si trovavano a dover far anticamera davanti agli occhi di tutti. D’altronde, proprio questo era l’obiettivo di Gheddafi: imbarazzare e umiliare i suoi visitatori occidentali. Io, però, grazie proprio a Nuri Mismari, avevo scoperto che ai leader arabi o africani che venivano in Libia, non si applicava lo stresso trattamento. A loro veniva applicato quello che a Tripoli chiamavano “il protocollo africano’. Ossia, in parole povere, dall’aeroporto venivano portati immediatamente dal leader libico, senza defatiganti e umilianti attese. E dunque, nel definire l’organizzazione della visita del nuovo Premier italiano, avevo richiesto categoricamente che anche a lui fosse applicato il “protocollo africano”. Avendo visto che la mia richiesta incontrava notevoli resistenze, avevo colto l’occasione di un mio incontro con Gheddafi per sollevare la questione direttamente con lui. E, come accadrà poi per varie altre questioni, il problema si era risolto alla grande. Investito personalmente della questione, Gheddafi apparentemente non se l’era sentita di ribadire una decisione così assurda e certo non molto amichevole. E così aveva concesso che anche al Presidente Berlusconi fosse applicato il protocollo africano (che da allora sarebbe stato concesso, perlomeno durante tutto il mio soggiorno, a tutte i Premier italiani in visita ufficiale). Nonostante questo, la storica prima visita di Berlusconi in Libia, nell’ottobre del 2002, all’inizio sembrava essere partita “con il freno a mano tirato”. Gheddafi ci aveva immediatamente ricevuto, ma, sulle prime, non si era mostrato molto caloroso. Appariva teso e imbronciato e aveva cominciato, con la solita litania, a ricordare i soprusi commessi dai soldati italiani, ai tempi dell’occupazione coloniale di Libia. Ad un certo punto aveva tirato fuori un vecchio moschetto, usato dai soldati italiani nella repressione di Omar el-Mukhtar in Cirenaica negli anni Trenta e, provocatoriamente, lo aveva dato al Presidente Berlusconi. Ricordo che io ero seduto su una scomoda panca sotto la tenda a Bab al-Azizia, attaccato a lui, mentre Gheddafi sedeva a un metro da noi. La sua gelida accoglienza mi aveva fatto cadere le braccia. Ma non conoscevo (dato che in effetti era la prima volta che lo vedevo) il Premier Berlusconi. Apparentemente non si era scomposto. Prima aveva risposto abbastanza a brutto muso al Colonnello che lui ai tempi del periodo coloniale non era nemmeno nato. Poi era partito alla conquista di Gheddafi, sfoderando tutto il suo charme. Gli aveva raccontato delle storielle. Aveva lusingato il suo ego… «lei è un super-professionista della politica, io, per ora, sono solo un apprendista». E, dopo venti minuti di un irresistibile Berlusconi’s show, Gheddafi aveva cominciato a sorridere. Era l’inizio di un rapporto sempre più stretto che, perlomeno nella mia visione, Berlusconi, con buona pace delle solite malevole e miopi insinuazioni dei media, aveva ricercato nell’interesse del nostro Paese. Non solo quello economico, ma anche politico, strategico, di sicurezza, di difesa dei diritti dei profughi italiani di Libia.