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L’incontro con il Presidente della ANP Yasser Arafat
In fondo, occuparmi di Medio Oriente era stato un “ritorno”. La tragica storia delle guerre tra Arabi e Israeliani aveva in qualche modo costituito, durante la mia carriera, un filo rosso che non si era mai interrotto. Avevo cominciato ad occuparmene più da presso negli anni ‘80 come vice Capo Ufficio Medio Oriente alla DGCS, poi come Capo della Segreteria del Sottosegretario con la delega per il Medio Oriente. Ed ora, dieci anni dopo, si ricominciava. Avevo ripreso a viaggiare nel Sinai, nel Golan, a Beirut, a Gerusalemme, a Gaza e in Palestina. E avevo ricominciato ad occuparmi più direttamente degli sforzi della diplomazia internazionale per favorire il Processo di Pace e le speranze accese dagli Accordi di Oslo, di Camp David e Washington. Nel gennaio del 1996 noi avevamo appena assunto la presidenza della UE e volevamo dare un chiaro segnale dell’importanza di quell’avvenimento per il futuro della regione. Avevamo dunque pensato di chiedere ad alcuni dei grandi statisti italiani molto popolari in Medio Oriente come Giulio Andreotti o Bettino Craxi di compiere un giro nei principali centri palestinesi durante le operazioni di voto. Era stato deciso che io lo dovessi accompagnare e così mi ero ritrovato a Gerusalemme con un freddo, folate di vento gelido e nevischio, che non mi sarei aspettato. Avevamo deciso di far base al maestoso King David Hotel. Era un albergo di grande antica eleganza e di ottimi moderni confort. Ma aveva anche qualche problema. Il sabato, lo “shabat”, tutto si bloccava. Dai servizi in camera a quelli delle pulizie, al funzionamento di bar o ristoranti, tutto si arrestava. Solo gli ascensori (che poi ritroverò identici a Berlino, all’Ausvartiges Am, il Ministero degli Esteri tedesco) funzionavano, perché andavano senza elettricità, ma con il sistema dei montacarichi. Dal King David, ogni mattina, con il Console Generale a Gerusalemme Enrico Nardi, andavamo poi in giro per le varie località palestinesi, a Betlemme, Nazareth, Ebron, Ramallah, Gaza. Ricordo che il Presidente Colombo era particolarmente preparato sulle storie e aneddoti dei luoghi sacri. A Gerusalemme, avevamo ripercorso tutta la “via crucis” arrivando sino al Monte Calvario (in realtà piuttosto deludente, talmente livellato che non si capiva nemmeno perché lo avessero chiamato “monte”). A Betlemme di Giudea, Emilio Colombo mi aveva voluto fare da guida nella Chiesa della Natività costruita sopra la celebre grotta in cui era nato Gesù, raccontandomi le celebri zuffe “a randellate” tra i monaci dei diversi ordini che si contendevano la sorveglianza della chiesa. A Nazareth di Galilea, la cittadina dove Gesù Cristo aveva passato l’infanzia e la giovinezza, eravamo andati a rivedere la Basilica dell’Annunciazione. Erano tutti posti che io conoscevo bene, ma andarci con Emilio Colombo, scortati e riveriti, mi aveva permesso di rivederli in santa pace sentendone tutta la suggestione, senza l’impossibile calca dei turisti. Nei nostri giri, avevamo naturalmente incontrato il Presidente dell’Autorità Palestinese Yaser Arafat, il mitico leader del patriottismo arabo e palestinese, sempre inturbantato nella sua kefiah. In quegli anni io lo avrei incontrato ripetutamente. La prima volta ci aveva ricevuto a Gaza, che mi ricordava molto Torvaianica, dopo una notte insonne passata nell’ Hotel Palestine. Era povero e modesto, ma all’epoca era l’unico hotel che c’era. E sempre a Gaza, ricordo lui che usciva dall’headquarters dell’Autorità Palestinese con Susanna Agnelli. Arafat, che era molto più piccolino e basso di lei (Carlo Ponti e Sofia Loren), secondo l’usanza araba, le teneva la manina e la guardava dal (molto più in) basso in alto, in tralice, dandole occhiate rapite. Mentre Susanna Agnelli, chiaramente scocciata, ci mandava boccacce perplesse e tacite richieste d’aiuto. E ci eravamo ritrovati a Roma quando ero stato io a riceverlo alla Farnesina e poi l’avevo dovuto intrattenere a causa di un ritardo del Ministro Agnelli. E poi, di nuovo, a Ramallah, quando, non ricordo più perché, Arafat mi parlava, accalorato, viso contro viso. Mi guardava con occhi lampeggianti gridando, enfatico e tonitruante: «Wallahi! I swear to God! I am the only Arab General that the Israelis have never, never defeated!». In effetti, anche lui era stato sconfitto. E poi, anche se è entrato nella Storia e nella leggenda, non era mai stato un generale, ma un ingegnere.